Nelle grandi aziende italiane si diffondono le piazze virtuali del welfare: i dipendenti entrano in una piattaforma telematica e, nell’ambito di un determinato plafond, sono liberi di scegliere il servizio che più interessa: un asilo nido, una polizza sanitaria, una palestra, un viaggio di formazione all’estero, un piano di previdenza complementare o l’abbonamento ai mezzi pubblici.
Una scelta seguita, ad esempio, da Gruppo Cimbali (macchine per il caffè) dove il pacchetto è modulabile lungo quattro direttrici: vita-lavoro, beni e servizi, sanità e assistenza, educazione e ricreazione.
Fca, invece, prevede un vero e proprio conto welfare, sempre visibile per il dipendente attraverso una piattaforma web dedicata, da cui può spendere il proprio budget attingendo in un ampio paniere che comprende, ad esempio, assistenza sanitaria integrativa, previdenza complementare, servizi di istruzione, voucher per l’acquisto di beni, e così via.
Mentre in Generali le aree di welfare dalle quali attingere sono addirittura dodici, partendo dalla previdenza integrativa fino alle iniziative di welfare allargato al territorio e alla comunità.
Non si tratta però solo di grandi aziende. Proprio la compagnia assicurativa di Trieste realizza anche ogni anno un indice per misurare lo “stato di salute” del welfare nelle Pmi: la ricerca 2017, condotta su un campione di 3.422 imprese di taglia small, mostra che il 40% è attivo in almeno quattro aree di welfare aziendale, il 58% in tre, e le imprese che attuano iniziative in almeno sei aree sono quasi raddoppiate: 18,3% del totale rispetto al 9,8% del 2016.
Nel quadro di regole che disciplinano la cosiddetta detassazione dei premi di risultato, è emersa la possibilità di convertire il premio (monetario) in benefit compresi nell’ambito di un piano di welfare aziendale.
Una possibilità che deve essere prevista da un contratto di secondo livello (aziendale o territoriale) siglato dai rappresentanti di aziende e lavoratori.
Dall’ultimo monitoraggio del ministero del Lavoro sui premi di produttività emerge che tra i 12.711 contratti “attivi”,3.909 – quindi quasi uno su tre – offrono ai dipendenti la possibilità di scegliere il welfare aziendale “esentasse” in alternativa al bonus monetario in busta paga (tassato al 10 per cento).
I numeri, certo, sono ancora di nicchia, ma il trend registrato dai bollettini mensili del Lavoro è incoraggiante: al 16 agosto risultavano inviate – attraverso la procedura telematica – 25.349 dichiarazioni di conformità, che si riferiscono ai contratti tuttora attivi, citati in precendenza: 12.711, cresciuti di 1.172 nel giro di un mese.
Del resto, i governi Renzi e Gentiloni hanno puntato a incentivare i premi di risultato con l’obiettivo di allargare il numero di imprese e lavoratori coinvolti.
La manovra 2017 ha aumentato la potenza di fuoco della detassazione sui premi di risultato: il limite per i bonus è salito dai vecchi 2mila euro fino a 3mila e si è allargata anche la platea dei beneficiari, con lo spostamento verso l’alto del tetto di reddito per avere la tassazione agevolata, da 50mila a 80mila euro lordi annui.
La spinta al welfare è poi arrivata dall’azzeramento dei limiti di deducibilità in caso di conversione del premio in servizi per sanità e previdenza integrativa (3.600 euro per le spese sanitarie e circa 5.200 euro per i versamenti alla pensione integrativa).
Infine la manovra di primavera agganciata al Def – il decreto legge 50, convertito dalla legge 96 del 2017 – ha aggiunto un nuovo tassello: nell’ipotesi di «coinvolgimento paritetico dei dipendenti nell’organizzazione del lavoro» il beneficio è doppio. Alla possibilità per il lavoratore di applicare la “cedolare secca” al 10% sull’intero premio (che viene riconosciuta in tutti i casi di detassazione), si affianca per il datore di lavoro lo sconto di venti punti percentuali dell’aliquota contributiva per invalidità, vecchiaia e superstiti su massimo 800 euro, ma solo per gli accordi siglati dopo il 24 aprile 2017.
Da Il Sole 24 Ore